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La Stanza della Meditazione

di Chandra Livia Candiani





Pensate di andare a fare un viaggio,

ma subito è il viaggio che vi fa o vi sfa.

N. Bouvier La polvere del mondo


Nella mia casa, c’è una stanza, né grande né piccola, vuota. È così da ventitre anni. Ci entro solo per sedermi in silenzio, da sola ogni giorno e due volte a settimana con altre persone. Il pavimento è coperto da una moquette, un po’ vecchia, azzurra, le pareti sono bianche, c’è una fila di cuscini su un lato della stanza e un cesto con coperte e scialli, ci sono due finestre, poggiata a un supporto alto circa un metro, la testa di un Buddha di origine cambogiana simile a un Pierrot gentile e sereno, per terra due candele e una ciotola per l’incenso. In effetti, questa stanza è nata intorno a un gesto. Il gesto di inchinarsi, di poggiare la fronte a terra. Di scendere. È bello avere un gesto che si ripete ogni giorno, è come avere una cornice che resta ferma e al suo interno possiamo notare come tutto cambi, dentro e fuori di noi. Tenendo fermo il gesto, notiamo che un giorno lo facciamo con commozione, un giorno con rabbia, un giorno di fretta, un giorno siamo innamorati e un’altra volta non lo siamo più, la vita ci ha toccato a fondo, la vita sembra trascurarci, e con tutto questo scorrere di eventi e di stati d’animo, insieme a tutto questo, noi c’inchiniamo.


Dopo anni di pellegrinaggi in India alla ricerca del mio sentiero interiore e di un modo per imparare a percorrerlo, tornata in Italia, ho sentito il bisogno di non andare più altrove. Sapevo che il cammino era in me, in un dentro molto prossimo al corpo, molto distante dal carattere, in un’intimità con me che andava oltre me, e volevo coltivare questa intimità in un luogo quotidiano, ordinario. Un luogo dove ripetere. Una stanza della mia casa (ma sarebbe bastato un angolo, un cuscino) rappresentava questa dimensione domestica della religiosità, un tempio casalingo. Pur continuando a nutrire l’anima seguendo come un fiuto insegnamenti e trasmissioni, ovunque, avevo bisogno di tornare a una spiritualità più segreta, più personale. Senza cercare esperti né volerlo diventare, aspiravo a un percorso e un sapere non divisi dal resto della vita e dunque della casa. Come dice un detto Zen: “Non cercare i saggi, ma quel che i saggi cercavano.”

Dopo dieci anni, sono arrivati anche altri pellegrini del sentiero. Ci sediamo insieme, condividiamo un luogo e una pratica. (1) Sappiamo insieme, io non sono né un’insegnante né una maestra, ma una persona che pratica la Via da un po’ di anni con tutto il cuore e questo amore per la Via è condivisibile. E naturalmente sappiamo che questo cammino non è l’unico.  La definizione che preferisco di Via l’ho trovata in François Chen: “(…) la Via, vale a dire la vita aperta.”(2)

Avere in casa una stanza così cambia un po’ l’esistenza, rende tutta la casa un po’ diversa. In qualche modo, una parte di me sa che c’è uno spazio in casa dove si coltiva la fiducia. Fondamentalmente è questo che la frequentazione del silenzio e del lasciar essere le cose così come sono crea: fiducia. Non ha molta importanza in cosa, una fiducia radicale e insieme minimale, anche solo che ci sia un sentiero e che sia percorribile, che ci sia una stanza, che ci si possa sedere, che il dolore o la gioia possano stare seduti con noi, in noi, nella stanza, che possano essere compresi. Mi è capitato, in momenti di profonda sofferenza, di entrare semplicemente nella stanza e di percepire tutte le ore passate lì seduta a coltivare la fiducia, era come se mi corressero incontro e mi abbracciassero. Quelle ore in quei momenti mi hanno confortato e sorretto. C’è un silenzio che da quella stanza esce e tocca le altre stanze. Spesso le persone che mi vengono a trovare sentono quel silenzio, lo notano, come qualcosa di sereno. Non è il mio silenzio e non è il silenzio di qualcun altro, ma incontrarsi e fare insieme silenzio fa nascere qualcosa. Qualcosa che resta. Il luogo lo registra, lo assorbe, si può sentirlo. Fa parte della pratica di meditazione buddhista non separare i mondi, non dividere quel che consideriamo spirituale da quel che riteniamo ordinario, così i gesti quotidiani di cucinare, lavare i patti, telefonare, pulire, lavarsi, leggere, scrivere possono diventare forme di preghiera, nel senso di contatto con il silenzio, con la trascendenza: sono semplici gesti, sono solo quello che sono, eppure…Avere in casa un luogo della meditazione accende la consapevolezza più spesso, c’è un silenzio pieno, vitale, felice che da lì dilaga e ricorda che il momento giusto è ora. Ti sveglia a praticare, proprio in questo momento, il saper di essere viva e aprirsi al suo mistero. Ismael, un bambino egiziano di 10 anni, in uno dei laboratori di poesia che tengo nelle scuole elementari, ha scritto:

Il silenzio è l’allegria

rastrellata del nostro corpo.


Un tempo, tenevo la porta della stanza della meditazione chiusa, era un tempo in cui pensavo ancora di dover proteggere la (mia) interiorità, il silenzio, la pratica della meditazione, come se dovessi preservarli dal resto della vita. Forse era una fase importante, un po’ come un albero gracile che si recinta per salvaguardarne la crescita; forse era un modo per esprimere la preziosità del luogo e della pratica che in quel luogo pian piano si svolgeva. Col tempo, ho sentito che la porta chiusa non solo preservava, ma anche separava, escludeva, interrompeva un flusso. E l’ho lasciata sempre aperta, si è creata una corrente tra la vita delle altre stanze e quella stanza vuota e silenziosa. Si sono arricchiti entrambi gli spazi, credo.

Nella mia casa vive anche un gatto, Zivago. Entra ed esce dalla stanza della meditazione, si fa le unghie sulla moquette, se ruba qualcosa va a mangiarselo lì, come un luogo salvo, un rifugio. Certe volte, entra quando sto meditando con altre persone, annusa le mani, fa un giretto, resta se gli va, altrimenti si dilegua. Una sera, una persona, sentendo di colpo il naso umido di Zivago sulla mano, lanciò un piccolo urlo e decidemmo di chiudere la porta. Il mattino dopo, al risveglio, entrando nella stanza, rimasi esterrefatta, sembrava che fosse nevicato, gran parte del pavimento era ricoperta di minuscoli pezzetti di cara igienica bianca, una visione. Sono rimasta a contemplarla per un po’ sentendo che non era solo strabiliante, un interno con paesaggio innevato, ma che conteneva un messaggio. E seduta a meditare l’ho colto: una stanza che non accoglie un gatto è un gabinetto. Da allora, avverto gli altri dell’esistenza di Zivago, e non solo ora lui entra ed esce come gli pare, il suo insegnamento ha toccato il mio modo di avere a che fare con quella stanza. Il silenzio ha bisogno della vita quotidiana. Ha bisogno del rumore, dei gatti, degli urli, per sapere che sono una cosa sola. Basta stare nel piccolo e col piccolo, perché il grande si rivela da sé quando siamo attenti. E il percorso della comprensione passa lieve per tutta la nostra vita.


Nella stanza della meditazione, impariamo insieme a essere qui. Ci vuole del tempo e qualche indicazione perché ci si risvegli a dove è il corpo. Spesso, le persone hanno un concetto della meditazione come di qualcosa che si fa a occhi chiusi. Entrano nella stanza e subito chiudono gli occhi. Un po’ come facevo io con la porta. Chiudere gli occhi fa sì entrare più direttamente in contatto con quel che scorre in noi, ci raccoglie, ma, come sempre, non deve essere un gesto automatico e non si tratta di chiudere fuori il mondo. Spesso, invito le persone ad arrivare nella stanza, lì dove il corpo è già seduto, a raggiungerlo. E a osservare la stanza, che luce c’è, che atmosfera, come percepiamo gli altri seduti con noi, gli oggetti nella stanza e lo spazio vuoto. Niente di speciale, è il primissimo passo per coltivare quella che nel percorso di risveglio del Buddha si chiama consapevolezza o presenza mentale. Essere tutti lì dove siamo. Quando siamo nel luogo, quando siamo qui, possiamo essere ora, esserci contemporanei e non antenati o posteri. Ascoltare come stiamo, assaporarlo. La stanza con i suoi muri, il suo pavimento, la sua aria vuota, ci fa da contenitore. Gradualmente, col tempo, man mano che ci apriamo a essere dove è il corpo e a sentire come stiamo in quel momento, il qui si dilata, diventa immenso, un luogo in cui la presenza dello spazio vuoto si estende fino a farci assaporare la spaziosità fondamentale in cui abitiamo, non solo la spaziosità della coscienza ma quella dell’universo stesso. E l’adesso non è più il contingente, il senso del presente si amplia nel sapore della pura, nuda presenza. Niente di straordinario, si avverte solo e gradualmente quel che già esiste. Una volta, in un giardino con un gruppo di bambini, dissi: “Che bell’aria c’è oggi!” e uno di loro, fissandomi scandalizzato: “Perché chiami aria il cielo?” Solo allora, guardandomi i piedi intimidita, mi accorsi che il cielo arriva fino a terra.


Una stanza della meditazione è un luogo poetico, in senso letterale, il luogo di un fare, un particolare tipo di fare che in un certo senso consiste nello smettere di fare alcunché, nel disimparare. Nella stanza ci si siede con attenzione, con cura, cura per il cuscino, la sedia, lo spazio, lo spazio proprio e altrui, per il corpo. Ci si raggiunge, ci si accorge di essere seduti lì in quel momento. Si porta l’attenzione al respiro così com’è, si riceve il respiro. L’attenzione è morbida, tenera, eppure salda e determinata, simile a quella che avremmo per una farfalla: se la stringessimo, la uccideremmo, se non la tenessimo con attenzione, sfuggirebbe. Si smette dunque di affaccendarsi in azioni, pensieri, preoccupazioni per il futuro, ricordi del passato. Ci si acquieta, lasciando che i pensieri sorgano e passino come uccelli in un cielo vasto. E si disimpara a prendere parte e posizione, a essere a favore o contro questo e quello, a fare di sensazioni, memorie, desideri, pensieri dei concetti a cui credere indiscutibilmente e di cui poi convincere gli altri. È un luogo che si fa insieme, di per sé è solo una stanza vuota, né brutta né bella, piena di spazio, di possibilità. E quel che ne nasce assomiglia al luogo stesso, sono miracoli del noto, del così già tanto visto che lo si dà per scontato: sedersi, osservare l’ambiente senza essere rapiti dal commentatore interno che ce lo descrive e ce lo spiega, respirare, sentire il corpo e le sue sensazioni, chiedersi come sto, restare in attesa della risposta. Lasciare spazio intorno a questi gesti tanto ordinari, dargli una stanza, li fa brillare, permette che aprano un varco nell’oscurità in cui di solito viviamo, nel nostro quotidiano sonno. Allora, pian piano, si ricevono le visite della consapevolezza. La consapevolezza del piccolo esercitata con pazienza e continuità apre la porta a una consapevolezza sempre più costante e più profonda, non più solo del corpo, ma anche del nostro funzionamento mentale, del nostro modo di ricevere e reagire al mondo, agli altri, agli eventi della vita, alla morte. Stare fermi fa conoscere i movimenti della mente. Ci apriamo. Ad accogliere. A non subire. A non interferire. Ad accogliere con fiducia qualsiasi cosa ci capiti. E questo non interferire, che permette il rivelarsi, apre la possibilità della comprensione e dello scioglimento.

Ho notato che lo spazio della stanza è molto simile allo spazio del cuore. Per noi occidentali, il cuore è il luogo delle emozioni, dei sentimenti, delle passioni. Nel buddhismo, si dice invece che un Buddha, un essere risvegliato, abbia il cuore vuoto, che significa spazioso, ampio, un cielo in cui le emozioni, gli affetti, i pensieri, le opinioni (in sanscrito cuore e mente sono un termine solo: citta) passano, ma non permangono, sorgono e svaniscono. La non-identificazione con le inaffidabili emozioni, i discontinui pensieri, illumina la fondamentale vacuità dello sfondo, della coscienza, la vivezza di uno spazio che riceve con freschezza l’esperienza senza interpretarla, evitarla, senza aggiungere, senza togliere, nudamente. Una stanza vuota insegna a essere contenitore vuoto, ma pronto, capace, accogliente. L’abilità di stare in una stanza vuota è quella di rendere altrettanto vuoto il proprio cuore, lasciar cadere le proprie opinioni, deduzioni, pregiudizi, lasciar scivolare quelle degli altri su di noi, lasciare che si riveli lo spazio vuoto di abitudini, un’altra possibilità.

In una stanza della meditazione, si impara a stare soli insieme. Si viene invitati a stare con noi stessi, a lasciare che il corpo e il cuore-mente rivelino da sé come stiamo, ma anche a percepire l’altro, a non ritirarsi, a non separarsi, a lasciar essere. E quello di cui ci si accorge allora, stando soli in compagnia, è che non esiste la mia consapevolezza, la mia pratica, ma un procedere insieme, un risvegliarsi insieme che è tutta una scoperta. È un modo d’incontrarsi senza perdersi né in sé né nell’altro.


Chi sono gli altri nella stanza di meditazione? Talvolta, si conosce appena il loro nome, si intravedono le facce e il corpo, di sera la stanza è quasi tutto il tempo illuminata solo dalle candele; è vero che c’è un tempo prima e dopo per incontrarsi informalmente, ma chiunque sente che non è quello il cuore dell’incontro. Nella stanza, non conta il nome, l’aspetto, il genere, la provenienza, la professione, lo stato civile e sociale, eppure c’è un incontro profondo. Spesso vedo nascere tra le persone un affetto originale e autentico, simile a quello fraterno. Quello che degli altri conosco di più nell’esperienza della stanza è il loro silenzio. Il silenzio è un po’ come la luce, bisogna affinare i sensi per accorgersi di quante diverse sfumature di luce in una giornata incontriamo. E così per il silenzio. Ci sono infinite varietà di silenzio. Ogni silenzio dice qualcosa. Nello stesso tempo, il silenzio è solo silenzio. Non esiste il silenzio mio o tuo. Fare silenzio insieme è una profondissima comunione. Le diverse esperienze di vita, i diversi stati d’animo possono creare complicità o avversione, il silenzio consapevole unisce. Il silenzio sa. Nel silenzio s’impara.


Nicole, una bambina filippina di 9 anni:

Io voglio sempre silenzio

come un’ombra ferma.

Io sono come una conchiglia, silenziosa.

La conchiglia è come una clessidra

che fa cadere sulla sabbia

il mio piccolo autoritratto.


E Milena, 10 anni:

Il silenzio è un vento,

che passa attraverso noi,

una soffice e tenera aria,

il silenzio è caldo,

come una coperta morbida,

come un liscio e leggero foglio

che delicatamente diventa il nostro piccolo silenzio.


Al silenzio si torna, come a un luogo conosciuto da tutti, da sempre. Una stanza in cui si fa silenzio è un luogo in cui s’impara ad accorgersi di quel che c’è già, a non trascurarlo, a non averne paura, a inoltrarsi, con fiducia, nel non-conosciuto. La stanza aiuta, è sempre lì, uguale, una sera siamo disperati, un’altra contenti, ci diciamo che va bene, ci diciamo che va male, la stanza sta. Così nel silenzio, senza nessuna presentazione, noi ci riveliamo tutti interi con i nostri veri nomi, generi, provenienze, lavori, amori, con i segni che tutto questo lascia in noi, con i segni che siamo.

Alla fine di una serata di meditazione, ognuno, se vuole, è invitato a dire com’è andata, come sta.  Anche la parola sullo sfondo del silenzio e della stanza vuota ha una diversa consistenza: non c’è niente da dimostrare, nessun livello da raggiungere, semplicemente si dice com’è andata, difficoltà, dubbi, scoperte, gioie, passi, passaggi. E si ascolta. In una stanza senza appigli, si è meno distratti, è come un’eco che riproduce la voce dei nostri giudizi sulle parole degli altri, quella voce che spesso ci fa perdere la verità della loro esperienza.

Dunque, una stanza della meditazione è un rifugio che ci espone totalmente, come la consapevolezza, ci protegge, ci custodisce, ma ci rivela tutti interi a noi stessi. E’ una stanza che permette questo rivelarci, un luogo di cui potersi fidare, in cui potersi abbandonare, senza paura o insieme alla paura. Ricordo una persona, anni fa, che facendo un lavoro molto faticoso, passava gran parte del tempo nella stanza a sonnecchiare anziché meditare. E quando, tutta vergognosa, ce lo confessò, io sentii di dirle che una stanza in cui poteva abbandonarsi al sonno doveva essere un luogo di cui si fidava. A poco a poco, senza fretta, il sonno lasciò il posto alla quiete.


Ho letto una storia di Chuang-tzu, maestro taoista del IV secolo a.C. (3)

“C’era un uomo che aveva paura della propria ombra e orrore delle proprie impronte. Così le sfuggiva correndo. Ma quante più volte alzava il piede, tanto più numerose erano le impronte che lasciava; e più in fretta scappava, meno l’ombra l’abbandonava. Credendo di andare troppo piano, corse più svelto senza mai riposare, finché, all’estremo delle forze, non morì. Egli non capiva che per far scomparire l’ombra bisogna rimanere nell’oscurità, che per far cessare le impronte bisogna rimanere nella quiete.”

Ecco, una stanza della meditazione non è un luogo esemplare, né dove essere esemplari, ma dove stare fermi nell’oscurità per conoscere la propria ombra e le proprie impronte. E per procedere oltre.


Note

(1)  La pratica della meditazione vipassana secondo la scuola del buddhismo theravada, o scuola degli antichi, diffusa soprattutto nel sud-est asiatico. I nostri incontri settimanali iniziano con quarantacinque minuti di meditazione seduta, in cui si coltiva la consapevolezza del respiro, delle sensazioni, dei pensieri, delle emozioni; seguono quarantacinque minuti di meditazione camminata in cui si porta la consapevolezza al corpo che cammina lentamente su e giù per un breve percorso di circa dieci passi. La serata si conclude con la lettura di un testo sull’insegnamento del Buddha e mezz’ora di condivisione sulla pratica.

(2)  François Chen, Cinque meditazioni sulla bellezza, Bollati Boringhieri, Torino, 2007,     p.p.13-14

(3)  Chuang-tzu,  La calma, Oscar Mondadori, Milano, 2007, p.63

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